intervista con Padre Swami s.j.
«Finché non ci sarà giustizia sociale, questa sarà sempre una zona di conflitto»
Si chiama Bagaicha, parola che significa più o meno comunità, luogo comune. Sono alcune palazzine color mattone attorno ad aiuole e allo spazio circolare chiamato achra: nei villaggi indigeni di questa regione è dove la comunità si riunisce per discutere le decisioni comuni. Padre Stan Swami è l’anziano gesuita che ha dato vita a questo spazio di attivismo sociale alle porte di Ranchi, capitale del Jharkhand, uno degli stati di foreste e giacimenti minerari dell’India settentrionale considerato «area di conflitto» – nel senso della rivolta armata di ispirazione maoista. Di formazione giurista, Swami è una delle figure più impegnate nella difesa dei diritti umani in Jharkhand, qui fa consulenza legale e un attivo lavoro di informazione sui diritti delle popolazioni native.
Raggiungo la Bagaisha di Stan Swami nel primo giorno dello «sciopero» proclamato dai maoisti in questa regione rurale (vedi l’articolo in questa pagina, ndr) per chiedergli se, dopo l’uccisione del dirigente maoista Kishenji, vede possibilità di dialogo politico in questo conflitto strisciante. «Nell’immediato non vedo fine alla violenza, da nessuna delle due parti», risponde. I maoisti – spesso chiamati naxaliti, in ricordo della prima rivolta armata nelle campagne del Bengala occidentale oltre 40 anni fa – continuano ad attaccare «il nemico», polizia e paramilitari o rappresentanti dello stato; lo stato continua ad ammassare le forze paramilitari nelle regioni tribali. «Un giorno la classe dirigente del paese dovrà riconoscere che la forza militare non può mettere fine al conflitto. La realtà è che un flusso continuo di adivasi aderisce al movimento maoista perché non gli è lasciata scelta. Ci sono ben 800mila uomini delle forze paramilitari dispiegati nelle regioni adivasi attraverso 5 stati, una presenza schiacciante. La violenza esercitata sulle regioni rurali è inimmaginabile: la polizia e i paramilitari devastano i villaggi con la scusa di cercare i maoisti. Anche lo sfruttamento delle risorse naturali è impressionante. La leadership politica indiana si illude che sia possibile una soluzione militare, ma il conflitto non avrà fine senza andare alla radice: la questione della giustizia».
Stan Swami precisa che non sta parlando solo di legalità ma di giustizia sociale. «Negli ultimi 10 anni il governo del Jharkhand ha firmato oltre un centinaio di ‘memorandum d’intesa’ con aziende e gruppi industriali interessati ad aprire miniere e costruire industrie. In questi accordi non c’è la minima menzione alle persone che dovranno lasciare la terra, gente liquidata con l’equivalente di qualche migliaio di euro». Un centro di studi sociali legato ai gesuiti stima che un milione e mezzo di persone abbiano dovuto sfollare negli ultimi trent’anni e l’80% non sia stato risistemato e risarcito – su una popolazione totale di poco meno di 30 milioni (di cui il 27% adivasi e il 60% complessivo di «classi arretrate», come il censimento indiano definisce tribali, caste basse e fuoricasta). Nei decenni passati interi villaggi adivasi sono stati spostati. Poi però «sono sorti numerosi movimenti ‘anti-displacement’, contro la cacciata dalla terra», spiega Swami.
La rivolta maoista? Fino a una decina d’anni fa non era così rilevante, sostiene Swami. Poi è cominciata una escalation. «Qui ci sono giacimenti minerari e i gruppi industriali premono per investire. Con l’ossessione di crescita che c’è in India, nel 2009 il governo indiano ha cominciato a dire che ‘il movimento maoista impedisce lo sviluppo della nazione’. Il vero scopo però non è combattere i maoisti, ma prendere il controllo della terra, ripulirla dagli abitanti nativi». Swami indica una cartina disegnata da una rete di avvocati per i diritti umani, indica per ogni distretto del Jharkhand le operazioni militari e i progetti industriali: e la coincidenza è prodigiosa. «I dati sono chiari: negli ultimi 5 anni, 550 giovani uomini e donne adivasi sono stati uccisi e 4500 sono stati arrestati».
Proprio nella regione di Saranda però ho sentito gli attivisti di piccoli gruppi di villaggio chiedersi perché i maoisti non facciano campagna contro l’espansione delle compagnie minerarie nelle regioni adivasi. «È vero. I maoisti non ostacolano gli imprenditori delle miniere, da cui invece estorcono denaro, protection money. Loro lo giustificano dicendo che devono sopravvivere e finanziare la lotta al fianco degli oppressi».
Il punto, insiste il gesuita, è la giustizia sociale. Alla vigilia dello «sciopero» maoista il ministro dello sviluppo rurale del governo di New Delhi, Jairam Ramesh, è andato nella foresta di Saranda («ripresa ai maoisti») a distribuire doni e titoli di proprietà della terra agli agricoltori adivasi. «Ma basta elargire qualche appezzamento di terra o regalare biciclette per dire che ‘lo sviluppo avanza?’ – tuona Swami – La legge sui diritti forestali del 2007 parla di accesso alle risorse in senso più complessivo. Sviluppo rurale significa avere accesso individuale e collettivo a terra, foreste, acqua. Questo significa vivere con dignità e rispetto di sé. La realtà è che l’alienazione dalle loro terre continua, con la forza o con l’inganno, aggirando le leggi».
Davanti alla spartana residenza di Swami c’è una stele con i nomi di eroi del Jharkhand, questo stato creato appena 10 anni fa: il primo è un leggendario eroe tribale e risale al 1880, l’ultimo è quello di suor Valsa John, uccisa due settimane fa, probabilmente da uomini delle mafie delle miniere contro cui si batteva: il gesuita la definisce «una martire degli oppressi».
Marina Forti (da Il Manifesto, 07 dicembre 2011)