da Chaibasa (India)
Una sorta di coprifuoco è in corso in un’ampia regione del centro-nord dell’India. E’ un coprifuoco ufficioso, ma non meno reale, tanto che è stato annunciato dai giornali: il 4 e 5 dicembre il Partito comunista (maoista) indiano, illegale, ha proclamato un bandh (sciopero) per onorare la morte di Koteswar Rao, alias Kishenji, membro di spicco del suo Politburo, ucciso dalle forze di sicurezza interna la scorsa settimana. Lo «sciopero» significa in pratica che nessuno si azzarda a mettersi in viaggio sulle strade extraurbane dove il movimento maoista è presente: come in questa provincia dello stato di Jharkhand, nel cuore di una delle più ricche zone minerarie dell’India, dove il paesaggio di risaie, foreste e villaggi è stravolto da grandi miniere a cielo aperto: qui sabato all’imbrunire sembrava appunto che ci fosse il coprifuoco. O come le foreste del confinante stato di Chhattisgarh, più a sud, dove nell’aprile 2010 i maoisti hanno ucciso in un attacco oltre 70 agenti delle forze paramilitari, segnando una escalation nel conflitto che serpeggia da anni in queste regioni di foreste, miniere e popolazioni «tribali», come si usa dire qui – gli adivasi, «abitanti originari» dell’India. O anche nella Jungle Mahal al confine tra Bengala occidentale e Jharkhand: più che «giungla» sono macchie di boscaglia e risaie, e da tempo sono considerate roccaforte della guerriglia maoista. E’ qui che il 24 novembre è stato ritrovato il corpo di Kishenji, l’uomo più ricercato da anni: a lui è accreditato di aver unificato diversi gruppi armati nel Partito comunista maoista, dandogli una direzione politico-militare precisa e una visibilità mediatica – i giornali qui ricordano sue conferenze stampa di notte nelle foreste, con telecamere e fotografi a riprendere coreografie di tute mimetiche e kalashnikov.
Il dirigente maoista sarebbe stato ucciso in un encounter, o scontro a fuoco, durante una battaglia. O almeno così dice la polizia: la famiglia e i compagni del defunto dicono invece che Kishenji è stato arrestato grazie a una soffiata, torturato e ucciso a sangue freddo. In ogni caso, la foto del leader maoista crivellato di colpi ha conteso i titoli d’apertura all’ultima battaglia politica nazionale, quella sulla decisione del governo centrale di New Delhi di aprire il settore della grande distribuzione a investimenti stranieri – se approvata permetterà alle note catene internazionali, i Wal Mart e i Carrefour, di aprire i loro supermarket nelle città indiane. Ma in un paese dove il supermercato resta una rarità per le élites urbane, i commercianti nazionali protestano unanimi e alcuni partiti (dell’opposizione e della coalizione di maggioranza) cavalcano la protesta.
La convivenza (sulle prime pagine dei giornali) tra supermercati e guerriglia maoista può sembrare bizzarra. Ma in fondo ben rappresenta l’India di oggi: paese di 1 miliardo e 210 milioni di abitanti (al censimento del 2011), celebrato come la più popolosa democrazia al mondo, che ama descriversi come «economia emergente» (il Pil è cresciuto intorno all’8% annuo nell’ultimo decennio, si attesterà forse sul 7$ in quest’anno di recessione globale), anche se il 42% della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno. Del resto, intorno alle miniere di questa regione montagnosa – come accanto alle acciaierie o ai poli di industria hi-tech – i villaggi non hanno la corrente elettrica.
Per qualche giorno dunque il conflitto che percorre ampie zone del’India rurale ha «bucato lo schermo» dei media indiani. E’ una guerra strisciante che coinvolge un’ampia fascia di territorio attraverso diversi stati nord-orientali: la mappa delle «zone affette da estremismo maoista» coincide quasi alla perfezione con la remota regione chiamata «tribal belt», dove prevale la popolazione indigena (i «tribali», o adivasi, «abitanti originari»): circa 90 milioni di persone che restano tra i più poveri e marginali della popolazione indiana. Questa regione a sua volta coincide con la «mineral belt», i territori montagnosi ove si trova la gran parte delle ricchezze minerarie indiane, solo in parte sfruttate: l’80% del ferro, il 90% della bauxite, uranio, carbone, rame, oro e quant’altro. E la domanda di acciaio resta alta, con o senza recessione mondiale, e anche quella di carbone: l’India ha fame di energia e deve comprarne all’estero per alimentare le sue centrali termiche. Insomma: la pressione ad aprire miniere, raffinerie e poli industriali continua a crescere. E così anche la pressione su terre e foreste abitate da «tribali» e popolazioni ai margini, poco a poco spinte fuori dai villaggi, foreste e risaie.
E’ questo sostrato che nell’ultimo decennio ha alimentato la rivolta maoista – spesso chiamati naxaliti. E la sparatoria nella giungla, vera o falsa, ha probabilmente chiuso per il momento ogni remota possibilità di un dialogo politico tra i ribelli e lo stato. In luglio infatti il governo del Bengala occidentale (lo stato che ha per capitale Calcutta) aveva incaricato un gruppo di «interlocutori» di avviare contatti con il Partito maoista. La chief minister (capo del governo statale) Mamata Banerjee, insediata appena un mese prima, manteneva così una delle sue promesse elettorali: non è un segreto che aveva stravinto le elezioni e messo fine a un pluridecennale governo delle sinistre in Bengala occidentale accettando il sostegno dei maoisti, al culmine delle proteste popolari contro grandi progetti industriali e requisizioni di terre (si ricordi il caso di Singur e lo stabilimento automobilistico della Tata). Insomma: appena eletta, Mamata è andata in visita nella Jungle Mahal a promettere pace e ha chiesto al governo centrale di ritirare le forze speciali antiguerriglia che la presidiavano, come tutti i distretti di conflitto. I contatti si cono stati, per qualche tempo le armi hanno taciuto – poi le operazioni delle forze paramilitari tra foreste e risaie sono ricominciate. E dopo l’uccisione di Kishenji i mediatori hanno rassegnato le dimissioni. Proprio come era già successo nel 2004, quando il governo dell’Andhra Pradesh aveva avviato contatti con i ribelli, ma poi le forze paramilitari (che dipendono dal governo centrale) hanno ucciso i dirigenti maosti, ed è saltato tutto.
Uno dei più autorevoli giornali in lingua inglese, The Hindu, ha scritto in un editoriale giorni fa che la morte di Kishenji è certamente un colpo per il partito ribelle, ma la realtà è che «prima e più che essere una minaccia alla sicurezza, l’insurrezione maoista è una questione politica che richiede risposte politiche». Intanto però la tensione sale. Nei distretti di «conflitto» da parecchi giorni le forze paramilitari sono mobilitate – la Central reserve police force, Crpf, che dipende dal governo centrale, e i suoi corpi di élite con nomi esotici come Cobra. Nei borghi rurali come Chaibasa in Jharkhand vediamo grande dispiegamento di agenti armati di tutto punto. Nei villaggi del Jungle Mahal, dicono corrispondenti locali, sono ricomparse milizie di «auto-difesa» contro i maoisti (ne esistono diverse versioni in altri stati, usate dalle forze di sicurezza per fare il lavoro sporco: dopo numerose denunce per le violenze commesse sulla popolazione civile, la Corte suprema indiana di recente le ha dichiarate illegittime).
La prova di forza dei maoisti non ha avuto grandi effetti, a parte qualche traliccio incendiato, una mina sui binari che collegano questa località mineraria alle zone industriali, e un’attentato contro un ministro statale in visita in un distretto minerario del Jharkhand: una mina che ha mancato il ministro ma ucciso 9 agenti di sicurezza, che si aggiungono alle 500 persone morte dall’inizio dell’anno in episodi legati al conflitto (di cui 93 membri delle forze di sicurezza e 275 civili) – sono le ultime cifre date dal governo al parlamento indiano, il 30 novembre. Ma la calma forzata dei piccoli centri, il «coprifuoco» sulle strade rurali, i movimenti di truppe – e la domanda di carbone e acciaio – tutto dice che la guerra strisciante nell’India rurale continua.
Marina Forti (Il Manifesto – 07 dicembre 2011)